Indice
- 1 Dietro il colore del manto si nasconde una mutazione causata dal gene ARHGAP36. Possibili implicazioni anche per l’uomo
- 2 Perché i gatti arancioni sono (quasi sempre) maschi
- 3 Lo studio su 67 gatti ha rivelato il gene ARHGAP36
- 4 La delezione è in una regione non codificante: la proteina resta intatta
- 5 Da nero ad arancione: un cambio di pigmento ancora misterioso
- 6 Dalla genetica felina alla ricerca medica: nuovi scenari
Dietro il colore del manto si nasconde una mutazione causata dal gene ARHGAP36. Possibili implicazioni anche per l’uomo
Una piccola delezione genetica situata sul cromosoma X è la chiave per spiegare perché alcuni gatti hanno il pelo arancione, mentre altri no. Questa mutazione, identificata nel gene ARHGAP36, è stata scoperta da un gruppo di scienziati dell’Università di Kyushu, in Giappone, guidati dal professor Hiroyuki Sasaki. La ricerca ha ricevuto conferma da uno studio indipendente della Stanford University, pubblicato contemporaneamente sulla rivista Current Biology il 15 maggio 2025.
Il professor Sasaki, genetista presso l’Istituto medico di Bioregolazione e l’Istituto per gli Studi Avanzati della Kyushu University, è anche un amante dichiarato dei gatti. La sua passione personale lo ha portato a stringere amicizia con una gatta calico in un rifugio locale, durante la sua ricerca del cosiddetto gene dell’arancione. “Identificare il gene è stato un sogno a lungo inseguito, ed è una gioia averlo finalmente realizzato”, ha dichiarato.
Perché i gatti arancioni sono (quasi sempre) maschi
Il colore del manto nei gatti non è solo una questione estetica, ma anche un perfetto esempio di genetica applicata. Da oltre un secolo si sospetta che il gene dell’arancione sia localizzato sul cromosoma X. Nei gatti maschi, che possiedono un solo cromosoma X, basta una singola copia della mutazione per esprimere un manto arancione completo.
Diverso è il caso delle femmine, che possiedono due cromosomi X. Per avere un manto completamente arancione, la femmina deve ereditare due copie della mutazione—evento piuttosto raro. Più frequentemente, le femmine possiedono una copia della variante arancione e una di un altro colore, come il nero, dando origine ai classici mantelli maculati dei gatti calico o tartarugati.
Il fenomeno alla base di questo mosaico cromatico si chiama inattivazione del cromosoma X. “Durante le prime fasi dello sviluppo embrionale, uno dei due cromosomi X nelle cellule femminili viene disattivato casualmente”, ha spiegato Sasaki. “Quando le cellule si dividono, questa inattivazione casuale crea zone con geni di colore attivi diversi, producendo le chiazze visibili sul mantello. È un esempio così evidente che viene spesso citato nei manuali di genetica, anche se finora il gene responsabile era sconosciuto”.
Lo studio su 67 gatti ha rivelato il gene ARHGAP36
Per confermare l’ipotesi, Sasaki ha condotto un’analisi genetica su un gruppo iniziale di 18 gatti domestici, di cui 10 con pelo arancione e 8 senza. Il confronto ha mostrato che tutti i gatti arancioni condividevano una specifica delezione nel gene ARHGAP36, assente nei gatti non arancioni. Questo schema è stato poi verificato su un campione aggiuntivo di 49 gatti, provenienti anche da un database genetico internazionale.
Non solo: la squadra ha scoperto che il gene ARHGAP36 è normalmente soggetto a silenziamento durante l’inattivazione del cromosoma X, non solo nei gatti, ma anche nei topi e negli esseri umani. Questo lo rende perfettamente coerente con l’ipotesi avanzata da decenni, secondo cui un gene sull’X fosse la causa della colorazione arancione.
“Queste prove erano così forti che anche in fase iniziale eravamo certi che ARHGAP36 fosse il gene giusto”, ha dichiarato Sasaki.
La delezione è in una regione non codificante: la proteina resta intatta
Analizzando in dettaglio la mutazione, Sasaki ha scoperto che la delezione non colpisce la sequenza che codifica per la proteina ARHGAP36, bensì una regione regolatrice. Questo è un punto cruciale, perché la proteina ha funzioni vitali nello sviluppo del corpo: alterarla strutturalmente potrebbe essere letale per il gatto. “Non avevo mai considerato ARHGAP36 come candidato per il gene dell’arancione proprio perché è essenziale per lo sviluppo”, ha aggiunto il ricercatore.
L’ipotesi più plausibile, dunque, è che la delezione modifichi l’attività del gene piuttosto che la sua struttura. Con il supporto di veterinari locali, il team ha analizzato tessuti cutanei di quattro gatti calico: i melanociti (cellule che producono pigmento) presenti nelle chiazze arancioni mostravano un’attività molto più alta del gene rispetto a quelle nere o bianche.
“Questo suggerisce che quella sezione di DNA normalmente serve a sopprimere l’attività di ARHGAP36”, ha spiegato Sasaki. “Quando quella parte è assente, il gene rimane attivo”.
Da nero ad arancione: un cambio di pigmento ancora misterioso
Un altro elemento emerso dallo studio è che l’aumento dell’attività di ARHGAP36 è associato a una riduzione dell’attività di numerosi geni coinvolti nella melanogenesi, ovvero nel processo che produce il pigmento del pelo e della pelle. Anche se il meccanismo esatto non è ancora noto, i ricercatori ritengono che questa variazione genetica possa indirizzare la produzione di pigmento dalla eumelanina (scura) alla feomelanina (rossastra).
Il gene, tuttavia, non si esprime solo nei melanociti. È attivo anche in altre aree del corpo, come il cervello e le ghiandole endocrine. Questo fa ipotizzare che la mutazione potrebbe avere effetti collaterali oltre la semplice colorazione del pelo. “Molti proprietari credono che i gatti arancioni abbiano una personalità diversa”, ha scherzato Sasaki. “Non ci sono ancora prove scientifiche, ma sarebbe interessante approfondire”.
Dalla genetica felina alla ricerca medica: nuovi scenari
La scoperta non si limita al mondo felino. Il gene ARHGAP36 è presente anche negli esseri umani, dove è stato associato a condizioni come la perdita di capelli e alcuni tipi di tumori della pelle. Sasaki ha già in programma di studiare il funzionamento molecolare del gene utilizzando colture cellulari feline, per esplorarne il ruolo più in profondità.
Un altro obiettivo è comprendere l’origine storica della mutazione. Il genetista ipotizza che si potrebbe analizzare il DNA di gatti mummificati in Egitto, o studiare dipinti antichi raffiguranti gatti, per capire quando e dove è comparsa per la prima volta la variante arancione. “È un’idea ambiziosa, ma non vedo l’ora di provarci”, ha concluso.