Indice
- 1 Scrittori, docenti e artisti rifiutano l’uso dell’IA generativa per ragioni etiche, ambientali e culturali
- 2 Algoritmi che decidono cosa possiamo creare
- 3 Contro l’intelligenza sintetica: manca l’anima umana
- 4 IA o niente? Quando il rifiuto diventa rischio professionale
- 5 L’arte non si frulla: quando l’IA spegne la creatività
- 6 Tecnofili sì, ma con spirito critico e coscienza
Scrittori, docenti e artisti rifiutano l’uso dell’IA generativa per ragioni etiche, ambientali e culturali
Un numero crescente di scrittori, accademici e creativi ha deciso di dire no all’intelligenza artificiale generativa. Non per nostalgia o ostilità verso il progresso, ma per un insieme di motivazioni etiche, ambientali, professionali e culturali. A far discutere è il potere sempre più pervasivo di sistemi come ChatGPT, accusati di minacciare l’autenticità dell’esperienza umana e di compromettere la creatività individuale. Il romanziere Ewan Morrison, per esempio, ha scoperto con divertito allarme che l’IA gli attribuiva la paternità di un libro mai scritto, intitolato Nine Inches Pleases a Lady. “Ne ho scritti solo nove”, ha spiegato. “ChatGPT ha inventato tre titoli aggiuntivi”. Il più curioso, Nine Inches, sembra ispirato da una poesia oscena di Robert Burns. Morrison, ironico ma lucido, ha ammesso: “Non mi fido di questi sistemi quando si tratta della verità”. Il suo ultimo romanzo, For Emma, affronta proprio i costi umani della tecnologia, immaginando un mondo in cui i chip neurali basati su IA vengono impiantati nel cervello umano.
Morrison rappresenta una corrente di pensiero in rapida crescita. Sono persone che osservano con attenzione lo sviluppo dell’IA, ma scelgono consapevolmente di non usarla. Alcuni lo fanno per principio, altri per timore, altri ancora per preferenza umana. A unirli, c’è la percezione che questa tecnologia stia disumanizzando le relazioni, snaturando il lavoro creativo e divorando risorse ambientali. È il fronte critico che si oppone, con determinazione crescente, al fascino della superintelligenza.
Algoritmi che decidono cosa possiamo creare
Tra le preoccupazioni maggiori c’è quella relativa all’utilizzo dell’IA nel mondo dell’arte e dell’intrattenimento. Morrison denuncia come l’industria culturale stia già applicando algoritmi per decidere quali film, libri o serie produrre. Secondo lui, “siamo bloccati a rifare il passato”, perché gli algoritmi propongono solo ciò che ha già funzionato: “Più dello stesso, perché è tutto ciò che possono fare”. Questo significa che la creatività, intesa come capacità di proporre l’inedito, viene compressa.
C’è poi il problema del copyright: l’IA viene addestrata su materiali scritti da altri, senza consenso e senza compenso. Non solo autori e sceneggiatori ne sono colpiti, ma anche chi lavora nella narrazione audio, come April Doty, professionista nel settore degli audiolibri. “Mi sconvolge il costo ambientale”, afferma. “Ogni ricerca IA brucia energia. Non riesco più nemmeno a disattivare le panoramiche automatiche nelle ricerche Google. Stiamo consumando il pianeta per risparmiare qualche clic”. Doty ha iniziato a usare motori alternativi, ma si sente comunque circondata. Dove può, ha scelto consapevolmente di non usare IA.
Contro l’intelligenza sintetica: manca l’anima umana
Anche il mondo accademico si muove. La linguista Emily M. Bender, autrice del saggio The AI Con, critica i modelli linguistici come ChatGPT per un motivo molto chiaro: “Non mi interessa leggere qualcosa che nessuno ha scritto”. Il problema non è tecnico, ma umano. Bender legge per comprendere la visione del mondo di un autore. Con l’IA, spiega, “non c’è nessun qualcuno dietro le parole. Solo un collage di frasi raccolte altrove”.
Secondo lei, fidarsi dell’intelligenza artificiale significa accettare una simulazione del pensiero umano, svuotata di significato. Citando il ricercatore Chris Gilliard, Bender avverte: “Le aziende tecnologiche vogliono intermediare ogni forma di relazione umana. È un modo per isolarci e renderci dipendenti dai loro strumenti. Né noi né le nostre comunità ne abbiamo bisogno”. Non si tratta solo di disinteresse personale. È una battaglia culturale contro la mediatizzazione algoritmica dei rapporti sociali.
IA o niente? Quando il rifiuto diventa rischio professionale
Il rifiuto dell’IA, però, comporta anche conseguenze. Tom, impiegato nel settore IT governativo, non la usa per principio, ma si è accorto che i colleghi ne fanno ampio uso. Un manager, ad esempio, ha completato una valutazione annuale in dieci minuti grazie a ChatGPT. Tom, sorpreso, ha ricevuto un consiglio lapidario: “Fallo anche tu, oppure non otterrai nulla”. “Mi sembrerebbe un imbroglio”, dice, “ma temo che, non usandola, finirò in svantaggio. Forse dovrò mettere da parte i miei principi”.
Altri cercano un compromesso. Steve Royle, professore all’università di Warwick, utilizza l’IA solo per compiti “routinarî” come scrivere codici. “Ma evito di farle generare codice complesso. Spesso funziona peggio del lavoro umano. Mi fa perdere tempo”. Anche lui teme che l’uso continuo di IA possa atrofizzare le competenze tecniche, trasformando gli esperti in meri correttori di output sintetici.
L’arte non si frulla: quando l’IA spegne la creatività
La regista Justine Bateman è ancora più netta: “L’IA generativa è una delle peggiori idee che la società abbia mai avuto”. Per lei, il rischio è culturale e psicologico: “Stanno cercando di convincere le persone che non sono capaci di fare cose semplici, come scrivere un’e-mail o inventare una storia per la buonanotte. Così la gente rinuncia anche a scegliere dove andare in vacanza o cosa indossare”. Con tono amaro, immagina un futuro in cui l’umano diventa “solo un sacco di pelle, ossa e organi, incapace di decidere”.
Secondo Bateman, l’IA non è creativa per sua natura: “È un frullatore: ci metti milioni di esempi e ottieni una poltiglia di contenuti già esistenti”. Per questo non può generare nulla di originale. “Chi usa l’IA e si crede un artista, sta solo bloccando la propria creatività”. Alcuni studi, come il celebre Studio Ghibli, si sono impegnati pubblicamente a non usarla. Altri, come DreamWorks, puntano al risparmio: “L’IA ridurrà i costi del 90%”, ha dichiarato il fondatore Jeffrey Katzenberg.
Tecnofili sì, ma con spirito critico e coscienza
Molti di questi critici non sono contrari alla tecnologia in sé. April Doty si definisce “molto tecnologica”, ma difende la centralità delle relazioni umane. Royle, che gestisce server e programmi, si definisce un obiettore di coscienza dell’IA. Emily Bender è esperta di linguistica computazionale, e nel 2023 è stata inclusa nella lista Time 100 delle personalità più influenti nel settore IA. “Sono una tecnologa”, afferma, “ma credo che la tecnologia debba essere costruita dalle comunità per le comunità, non per profitto aziendale”. Chiude con ironia: “I luddisti erano fantastici. Indosserei quella spilla con orgoglio”.
Anche Morrison rivendica una visione concreta: “Mi piacciono i luddisti, persone che si battono per proteggere i posti di lavoro e le comunità”. Il punto non è fermare il futuro, ma indirizzarlo. Non un rifiuto cieco della tecnologia, ma un appello a non smarrire l’umanità nel cammino verso il digitale.
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