Indice
- 1 Secondo la giornalista Annie Jacobsen, l’unico rifugio davvero sicuro in caso di apocalisse atomica non è un bunker, ma un intero continente. Spoiler: bisogna attraversare mezzo pianeta per arrivarci
- 2 L’inverno nucleare e la fame del pianeta
- 3 Oceania: ultimo rifugio della civiltà
- 4 C’è un’altra isola: Tristan da Cunha, il rifugio dimenticato
- 5 La sicurezza perfetta non esiste
- 6 Il messaggio di Annie Jacobsen
Secondo la giornalista Annie Jacobsen, l’unico rifugio davvero sicuro in caso di apocalisse atomica non è un bunker, ma un intero continente. Spoiler: bisogna attraversare mezzo pianeta per arrivarci
Mentre le tensioni tra Russia e NATO crescono di settimana in settimana e i droni di Mosca sconfinano nello spazio aereo europeo, qualcuno si spinge oltre la cronaca e si chiede: “Dove potremmo sopravvivere, se tutto saltasse in aria?”. A porsi la domanda, con la lucidità dei reporter d’inchiesta e la freddezza dei numeri, è Annie Jacobsen, autrice del libro “Nuclear War: A Scenario”, un saggio che descrive in modo spietatamente realistico gli effetti di una guerra atomica globale.
Secondo la giornalista, il rifugio all’apocalisse non sarebbe da cercare in un bunker sotterraneo, ma in Oceania. Più precisamente, Australia e Nuova Zelanda rappresenterebbero l’ultima speranza di sopravvivenza per la civiltà umana. Lontane da potenziali obiettivi strategici e protette dalla loro posizione geografica, le due grandi isole dell’Oceano Pacifico resterebbero relativamente al riparo dalle radiazioni e dagli sconvolgimenti climatici che seguirebbero a una detonazione globale.
L’inverno nucleare e la fame del pianeta
Jacobsen non parla di fantascienza. In un’intervista al podcast Diary of a CEO, ha spiegato che la conseguenza immediata di un conflitto atomico sarebbe il cosiddetto “inverno nucleare”: un lungo periodo di oscurità e freddo provocato dalle particelle radioattive e dalla cenere sollevata nell’atmosfera. “La maggior parte del mondo, specialmente le latitudini medie, sarebbe ricoperta di ghiaccio. Luoghi come l’Iowa e l’Ucraina sarebbero sotto la neve per dieci anni”, afferma.
In questo scenario, l’agricoltura collasserebbe e con essa la base stessa della sopravvivenza umana.
“Quando l’agricoltura fallisce, le persone muoiono”, sintetizza Jacobsen. Il sole non filtrerebbe più, i raccolti non maturerebbero e la catena alimentare si spezzerebbe nel giro di pochi mesi.
Solo i luoghi capaci di mantenere un microclima stabile e una minima autosufficienza agricola avrebbero qualche possibilità di resistere. E tra questi, Australia e Nuova Zelanda emergerebbero come candidate ideali.
Oceania: ultimo rifugio della civiltà
L’autrice ipotizza che in gran parte del pianeta la radiazione solare diventerebbe letale, a causa della distruzione dello strato di ozono.
“Lo strato di ozono sarebbe così danneggiato e distrutto che non si potrebbe stare all’aperto alla luce del sole”, spiega Jacobsen. “Le persone sarebbero costrette a vivere sottoterra, lottando per il cibo ovunque, tranne che in Nuova Zelanda e Australia”.
La combinazione tra isolamento, risorse agricole e stabilità politica renderebbe l’Oceania un raro paradiso in mezzo al caos. Due terre abbastanza lontane da tutto per sopravvivere, ma anche abbastanza grandi per ospitare una società organizzata. Non un paradiso eterno, ma una possibile arca di Noè per l’umanità.
C’è un’altra isola: Tristan da Cunha, il rifugio dimenticato
Eppure, c’è chi guarda ancora più lontano. Secondo alcuni studiosi e survivalisti, esiste un’altra zona del mondo in grado di competere con l’Oceania come rifugio ideale: Tristan da Cunha, una minuscola isola vulcanica britannica nel cuore dell’Atlantico meridionale. Si trova a 2.400 chilometri dalle coste del Sudafrica e a oltre 3.300 chilometri dal Sud America. È considerata la comunità abitata più isolata del pianeta: appena 200 residenti, nessun aeroporto, e una sola nave che la collega al mondo esterno, dopo una traversata di sette giorni da Città del Capo.
Proprio questo isolamento la rende virtualmente inaccessibile e sicura in caso di guerra mondiale. Tristan da Cunha non ha basi militari, non ospita industrie pesanti e vive di pesca, allevamento e agricoltura sostenibile, con un modello quasi autosufficiente. Un rifugio naturale in cui l’aria è pulita, il tempo sembra essersi fermato e la distanza da tutto diventa il miglior scudo possibile.
La sicurezza perfetta non esiste
Naturalmente, anche un paradiso come Tristan da Cunha ha i suoi limiti. In un mondo devastato da un inverno nucleare, nessun luogo sarebbe completamente immune. L’isolamento garantirebbe un vantaggio temporaneo, ma la scarsità di risorse, i cambiamenti climatici e l’assenza di aiuti esterni renderebbero difficile la sopravvivenza a lungo termine.
Eppure, la riflessione di Jacobsen e di chi guarda a queste terre remote serve a ricordarci una verità fondamentale: la sicurezza assoluta non esiste, ma la prevenzione sì.
La vera difesa non è trovare un’isola dove fuggire, ma evitare che l’isola diventi l’unica opzione.
Il messaggio di Annie Jacobsen
L’autrice non vuole spaventare, ma scuotere. Il suo libro è un monito contro l’indifferenza e la leggerezza con cui il mondo continua a ignorare il rischio atomico. Oggi esistono oltre 12.000 testate nucleari attive, e basta un errore, un segnale interpretato male o un algoritmo impazzito per scatenare una catena irreversibile. Jacobsen ricorda che, in un mondo dove tutto è connesso, anche la catastrofe lo è. Australia, Nuova Zelanda o Tristan da Cunha possono sembrare rifugi perfetti, ma la vera salvezza resta solo una: non arrivare mai al punto di doverli raggiungere.
