Indice
- 1 Uno studio dell’Università di Padova trova frammenti di PET e polietilene in quasi tutti i campioni analizzati
- 2 Formaggi più contaminati del latte
- 3 L’analisi sotto la lente del microscopio
- 4 Una contaminazione che parte da lontano
- 5 Cosa succede nel nostro corpo?
- 6 L’Italia e la sfida della filiera pulita
- 7 Dalla plastica ai piatti: la nuova consapevolezza
Uno studio dell’Università di Padova trova frammenti di PET e polietilene in quasi tutti i campioni analizzati
Non solo mari, fiumi e pesci: ora le microplastiche finiscono anche nel bicchiere di latte e nella fetta di formaggio. A lanciare l’allarme è uno studio condotto dall’Università di Padova, pubblicato sulla rivista NPJ Science of Food del gruppo Nature, che ha analizzato 28 campioni di prodotti lattiero-caseari – tra cui latte confezionato, formaggi freschi e stagionati – trovando frammenti di plastica in quasi tutti: 26 su 28. Le particelle individuate sono minuscole, inferiori ai 150 micrometri, e la loro natura principale è quella del PET (polietilene tereftalato), la stessa plastica usata nelle bottiglie e negli imballaggi alimentari. Seguono polietilene e polipropilene, materiali comuni in guanti, tappi e contenitori industriali.
Secondo i ricercatori, la contaminazione avverrebbe durante la lavorazione, quando il contatto con utensili, macchinari o indumenti sintetici rilascia microframmenti. Ma non solo: l’aria, l’acqua e gli stessi imballaggi potrebbero rappresentare ulteriori vettori. L’elemento più preoccupante è che queste microparticelle, invisibili a occhio nudo, non vengono eliminate nei processi industriali e finiscono direttamente nei prodotti destinati al consumo quotidiano.
Formaggi più contaminati del latte
I risultati mostrano un quadro sorprendente: i formaggi stagionati sono i più contaminati, con concentrazioni che raggiungono 1.857 particelle di microplastica per chilo, seguiti dai formaggi freschi (1.280 MP/kg) e dal latte (350 MP/kg). Questo suggerisce che la trasformazione e l’invecchiamento del prodotto aumentano il rischio di contaminazione, forse per l’uso di stampi, pellicole o superfici in plastica.
Nel dettaglio, le microplastiche individuate sono per lo più frammenti irregolari (77,4%) e fibers sottili (22,2%), con prevalenza di colori grigi, marroni e neri, indizi della loro origine industriale. I ricercatori sottolineano come la presenza di particelle grigie indichi una probabile provenienza da film plastici, chiusure e rivestimenti alimentari, piuttosto che da contaminazioni ambientali.
“Non stiamo parlando di residui marini, ma di particelle rilasciate da materiali a contatto diretto col cibo”, spiegano gli autori.
L’analisi sotto la lente del microscopio
Per ottenere i risultati, il team ha utilizzato una tecnica di spettroscopia a infrarossi ad alta precisione (µ-FTIR-ATR), in grado di identificare la composizione chimica di ciascun frammento. Tutte le operazioni si sono svolte in una clean room certificata ISO, per evitare contaminazioni esterne: guanti, camici e superfici di lavoro sono stati scelti in materiali che non rilasciano polimeri.
Ogni campione è stato sottoposto a digestione enzimatica e chimica per eliminare la parte organica e isolare i residui plastici. Dopo la filtrazione e l’asciugatura, i frammenti sono stati esaminati al microscopio, fotografati e catalogati per forma, colore e dimensione. Il confronto con librerie di riferimento ha permesso di identificare 20 diverse classi di polimeri, tra cui PET, PE, PP, silicone e PVC. Una quantità e varietà che conferma come il fenomeno sia tutt’altro che casuale.
Una contaminazione che parte da lontano
La presenza di microplastiche nei latticini non nasce nel supermercato. Già nella fase agricola, spiegano i ricercatori, i residui plastici possono arrivare da mangimi contaminati, tubazioni, abiti sintetici del personale o membrane polimeriche usate nei sistemi di filtrazione del latte. In altre parole, la plastica accompagna il prodotto dalla stalla allo scaffale.
Una volta entrata nella filiera, è difficile eliminarla. Persino le bottiglie o i contenitori sigillati, progettati per conservare al meglio i prodotti, possono rilasciare microframmenti con l’usura o con le variazioni di temperatura. E più il prodotto è lavorato o grasso, più tende a trattenere le particelle. Per questo i formaggi stagionati, che perdono acqua e subiscono lunghi contatti con superfici plastiche, risultano i più esposti.
“La maturazione e l’alto contenuto lipidico favoriscono l’accumulo di microplastiche”, osservano gli studiosi.
Cosa succede nel nostro corpo?
La domanda chiave resta senza risposta: che fine fanno queste microplastiche una volta ingerite? Lo studio padovano non affronta direttamente gli effetti sulla salute, ma sottolinea l’urgenza di capire se tali particelle possano attraversare la barriera intestinale e accumularsi nei tessuti. Alcuni lavori precedenti hanno già rintracciato microplastiche nel sangue, nei polmoni, nel cervello e perfino nella placenta umana. Tuttavia, non è ancora chiaro se le quantità rilevate possano causare effetti tossici o infiammatori.
Secondo gli autori, la priorità è stabilire quanto e come l’organismo sia in grado di eliminarle. “Non è dimostrato che le microplastiche nel latte rappresentino un rischio diretto, ma è evidente che il nostro contatto quotidiano con la plastica è ormai totale”, si legge nelle conclusioni. L’obiettivo dei ricercatori è ora quello di tracciare il percorso della contaminazione e individuare possibili strategie di riduzione.
L’Italia e la sfida della filiera pulita
L’indagine padovana, la prima del genere in Italia, apre un fronte delicato anche per il settore lattiero-caseario nazionale, tra i più importanti in Europa. Se confermata su scala più ampia, la presenza di microplastiche nei prodotti potrebbe avere ripercussioni economiche e d’immagine, soprattutto all’estero, dove il “Made in Italy” alimentare è sinonimo di purezza e qualità.
Il Ministero della Salute, interpellato in merito, non ha ancora commentato, ma dal mondo scientifico arrivano inviti alla prudenza: servono standard di controllo e protocolli di analisi unificati. In parallelo, le aziende dovranno valutare alternative agli imballaggi plastici e introdurre materiali più sicuri. “Non serve creare allarmismo, ma affrontare il problema con rigore scientifico”, spiegano gli esperti.
Dalla plastica ai piatti: la nuova consapevolezza
Lo studio dell’Università di Padova si inserisce in un quadro globale di crescente attenzione verso la diffusione delle microplastiche negli alimenti: acqua, birra, sale, miele e ora anche latte. L’evidenza è una sola: la plastica è ovunque. Ogni anno ne vengono prodotte oltre 400 milioni di tonnellate, e la sua degradazione genera una nube invisibile di frammenti che rientrano nel ciclo alimentare.
Il rischio, spiegano gli autori, non è solo biologico ma anche sociale: serve una nuova cultura della trasparenza nella produzione alimentare e una presa di coscienza collettiva sul costo nascosto della nostra dipendenza dalla plastica. “Ogni scelta quotidiana, dal packaging al consumo, contribuisce a definire l’impronta plastica del pianeta”, concludono i ricercatori.
Fonte:
Assessing microplastic contamination in milk and dairy products | npj Science of Food
