Indice
- 1 L’industria spaziale globale esclude i popoli indigeni e riproduce modelli di sfruttamento. È tempo di cambiare rotta
- 2 Un’élite decide per tutti: gli esclusi della corsa allo spazio
- 3 Il caso Australia: occasione persa o nuovo inizio?
- 4 Etica spaziale: serve un nuovo paradigma
- 5 Cosmotechnics: riconoscere i saperi ancestrali
- 6 Lo spazio non è una tabula rasa: una questione di giustizia
L’industria spaziale globale esclude i popoli indigeni e riproduce modelli di sfruttamento. È tempo di cambiare rotta
La conquista dello spazio sta accelerando. Secondo stime recenti, entro il 2035 il settore spaziale globale potrebbe raggiungere un valore di 1,8 trilioni di dollari. Ma mentre le nazioni si affollano per piantare bandiere su Luna, Marte e asteroidi, cresce anche la preoccupazione per il rischio di ripetere gli errori storici della colonizzazione terrestre. Undici studiosi – tra cui esperti indigeni, antropologi, astronomi e giuristi – hanno firmato un commento pubblicato su Nature, in cui denunciano l’esclusione sistematica di comunità indigene e Paesi a basso reddito dai processi decisionali legati allo spazio.
Non si tratta solo di accesso economico o scientifico, ma di una vera e propria questione di giustizia e inclusione epistemica. L’uso di linguaggi come “piantare bandiere”, “rivendicare territori”, “estrarre risorse”, secondo gli autori, ricalca le dinamiche delle passate occupazioni coloniali. A dirlo è anche l’antropologo culturale Adam Fish, dell’Università del Nuovo Galles del Sud (UNSW Sydney): “Il linguaggio e le azioni adottati oggi nello spazio ricordano il manuale coloniale. E come allora, le comunità indigene vengono escluse e i loro saperi ignorati”. I ricercatori chiedono un cambiamento radicale nel modo in cui la governance spaziale viene pensata e attuata, affinché diventi un processo veramente inclusivo e collaborativo.
Un’élite decide per tutti: gli esclusi della corsa allo spazio
Oggi nel mondo esistono 77 agenzie spaziali nazionali, ma solo poche detengono potere decisionale effettivo. Gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e l’Europa guidano le scelte strategiche, accompagnati da un gruppo ristretto di aziende private come SpaceX, Blue Origin e Boeing.
I Paesi a medio e basso reddito, insieme alle nazioni indigene, vengono frequentemente esclusi da conferenze internazionali, trattati e tavoli di lavoro dove si definiscono le regole del gioco.
Questa marginalizzazione ha effetti concreti. In assenza di consultazione, si creano infrastrutture senza tener conto dei territori o dei simbolismi culturali locali. Alcuni scienziati parlano di una forma moderna di terra nullius, concetto che storicamente ha giustificato la sottrazione forzata delle terre indigene in Australia e altrove. Lo spazio – così come viene concepito da chi lo esplora – rischia di diventare “uno spazio vuoto da riempire”, nonostante il valore che le cosmologie indigene attribuiscono al cielo e agli astri.
Il caso Australia: occasione persa o nuovo inizio?
L’Australia rappresenta un esempio emblematico. La sua posizione geografica privilegiata e i cieli limpidi ne fanno una piattaforma ideale per missioni spaziali, lanci di satelliti e stazioni a terra. Eppure, le comunità Aborigene e Torres Strait Islander, che possiedono conoscenze astronomiche tramandate da secoli, sono ancora poco coinvolte nei processi di sviluppo spaziale.
Daniel Joinbee, imprenditore Gunggandji e cofondatore della Gunggandji Aerospace, è tra gli autori del commento su Nature. Ricorda iniziative virtuose come il Center for Appropriate Technology e la National Indigenous Space Academy, progetti che hanno aperto la strada all’inserimento delle comunità indigene nella ricerca scientifica.
Tuttavia, l’assenza di un vero quadro normativo di inclusione ha portato a fallimenti evidenti, come la chiusura dell’Arnhem Space Center. Un’infrastruttura sviluppata con una minima consultazione indigena, ma che non ha retto nel lungo periodo.
“Senza un approccio strutturato e collaborativo,” spiega Joinbee, “le comunità rischiano di essere escluse dai benefici culturali ed economici dello sviluppo spaziale. E allo stesso tempo, l’industria perderà una ricchezza di conoscenze ancora sottovalutata”.
Etica spaziale: serve un nuovo paradigma
Il cambiamento auspicato dagli autori dell’articolo non consiste nell’arrestare l’esplorazione spaziale, bensì nel ripensarla da zero. Adam Fish sottolinea come il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967, tuttora riferimento giuridico internazionale, non contempli i diritti delle popolazioni indigene, né affronti le eredità coloniali delle politiche terrestri trasferite in orbita.
Gli studiosi propongono un modello alternativo fondato su cinque principi: collaborazione, consultazione, rispetto, responsabilità e beneficio reciproco. Questi valori dovrebbero orientare la creazione di regole comuni, nel rispetto delle diversità culturali e cosmologiche.
Peter Swanton, ricercatore indigeno Gamilaraay-Yuwaalyaay dell’Australian National University, afferma: “Credo che l’Australia possa guidare uno sviluppo spaziale etico e sostenibile. Ma dobbiamo agire ora”.
Cosmotechnics: riconoscere i saperi ancestrali
Un’ulteriore proposta è quella di integrare la visione indigena nei modelli tecnoscientifici occidentali. È la teoria delle cosmotechnics, sviluppata da filosofi come Yuk Hui: un sistema in cui le tecnologie moderne vengono ripensate alla luce delle cosmologie locali, con implicazioni etiche, ambientali e spirituali.
Gli autori sostengono che gli “Indigenous caretaking systems” possano offrire strategie alternative di gestione dei territori, anche quando si parla di superfici lunari, orbite terrestri o missioni su Marte.
Esempi di queste applicazioni si trovano nei progetti di astronomia indigena australiana, ma anche nelle pratiche spirituali delle popolazioni Māori e Navajo, che attribuiscono significati profondi a determinati corpi celesti. Questo approccio può migliorare la sostenibilità dei progetti spaziali, riducendo gli impatti ambientali e culturali.
Lo spazio non è una tabula rasa: una questione di giustizia
“Lo spazio non deve diventare dominio esclusivo di pochi privilegiati”, ribadisce Swanton. “Deve essere una risorsa condivisa, gestita con rispetto verso la diversità umana”.
In un mondo ancora segnato da disuguaglianze, lasciare che la corsa allo spazio sia guidata unicamente da logiche di profitto, supremazia e controllo sarebbe un’occasione persa. Peggio: potrebbe trasformarsi in una nuova forma di imperialismo tecnologico.
Riconoscere l’importanza di una governance spaziale inclusiva significa tutelare il futuro dell’umanità. Non solo quello di pochi attori. E soprattutto, significa non ripetere gli errori che la storia ha già condannato.
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