Indice
- 1 Ha rivoluzionato il mondo del lavoro e dell’economia digitale, ma ora la creatura di OpenAI vacilla: a rischio l’intero sistema
- 2 Troppo grande per fallire: il parallelo che inquieta Wall Street
- 3 La corsa di Altman: espansione o bolla annunciata?
- 4 L’euforia dell’IA: tra mito della crescita infinita e realtà dei conti
- 5 Quando l’algoritmo diventa sistema: il nuovo rischio globale
Ha rivoluzionato il mondo del lavoro e dell’economia digitale, ma ora la creatura di OpenAI vacilla: a rischio l’intero sistema
ChatGPT è diventato il compagno inseparabile di milioni di utenti (e aziende) in tutto il mondo. Ma sul suo radioso futuro cominciano ad addensarsi nuvoloni scuri. In meno di tre anni la creatura di OpenAI è passata da laboratorio no-profit a pilastro della nuova economia USA, fatturando circa 3,5 miliardi di dollari (poco più del 2% delle vendite di Amazon) e venendo considerata infrastruttura critica per il sistema tecnologico e finanziario statunitense. La valutazione stimata intorno a 500 miliardi si intreccia con Microsoft (azionista ~27%), Nvidia e AMD, oltre che con le politiche industriali della Casa Bianca. In questo contesto, un inciampo della società guidata da Sam Altman non sarebbe solo un fastidio per gli investitori: rischia di diventare uno shock per l’economia americana e, a cascata, per i mercati globali.
E anche le imprese che oggi celebrano l’IA come scorciatoia per ridurre il personale potrebbero pagarne presto il prezzo. Molte aziende stanno tagliando reparti interi confidando nell’efficienza dei chatbot e dei sistemi generativi, ma in caso di rallentamento o guasto dell’infrastruttura OpenAI, si troverebbero senza competenze umane interne e senza piani di backup. È il paradosso della rivoluzione digitale: chi ha delegato tutto all’algoritmo rischia di trovarsi ostaggio della stessa tecnologia che avrebbe dovuto liberarlo dai costi. È qui che nasce la domanda scomoda: OpenAI è già “too big to fail”?
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Troppo grande per fallire: il parallelo che inquieta Wall Street
Il Wall Street Journal l’ha definita una bomba a orologeria digitale: OpenAI rischia di diventare per la tecnologia ciò che Lehman Brothers fu per la finanza. Nel 2008 furono i derivati e i mutui subprime a minare il sistema; oggi il detonatore potrebbe essere l’eccesso di fiducia nell’intelligenza artificiale. In un’economia americana sempre più dipendente dai modelli generativi, un inciampo del colosso di Altman non si limiterebbe a far perdere valore in Borsa: paralizzerebbe interi settori produttivi basati sull’automazione cognitiva, dalla comunicazione al customer care, fino alle società di consulenza e ai servizi finanziari.
Ma il rischio non si ferma a Wall Street. In migliaia di aziende, dirigenti e investitori hanno sostituito personale qualificato con strumenti IA convinti che la riduzione dei costi fosse sinonimo di efficienza. Se il motore di questa infrastruttura dovesse rallentare o, peggio, incepparsi, a saltare non sarebbero solo le piattaforme digitali ma anche le catene di valore fondate sull’illusione dell’autonomia algoritmica. Le stesse imprese che oggi vantano bilanci “snelli” rischierebbero di ritrovarsi scoperte come le banche prima del crollo del 2008: efficienti sulla carta, vulnerabili nella realtà.
È per questo che molti analisti parlano già di un potenziale “AI Lehman moment”, un punto di non ritorno in cui un problema tecnico, un bug o un blocco di server potrebbero generare perdite a catena in tutto l’ecosistema finanziario e industriale globale.
La corsa di Altman: espansione o bolla annunciata?
Dietro l’immagine visionaria di Sam Altman si nasconde una realtà più prosaica: OpenAI brucia denaro a ritmo vertiginoso. Nel 2024 ha registrato una perdita di circa 5 miliardi di dollari, e le stime per l’anno in corso superano già i 10 miliardi. Numeri che basterebbero a far tremare qualsiasi altro player del settore, ma che il fondatore liquida con una formula semplice: «Siamo nella fase di investimento e crescita». L’obiettivo, almeno nelle sue parole, è costruire un’infrastruttura universale prima e monetizzarla poi.
Una strategia che funziona finché l’entusiasmo regge, e finché i finanziatori credono nella promessa. Altman prepara la più grande IPO della storia recente, con l’intenzione di portare OpenAI a quotazioni fino a 1.000 miliardi di dollari entro un anno. Ma nel frattempo ogni trimestre diventa una prova di sopravvivenza: mantenere alta la percezione di crescita, attirare nuovi partner, nascondere la fragilità di un modello economico che vive più di narrazione e hype che di utili reali.
Il rischio, come avvertono diversi analisti di settore, è che la corsa all’IA si trasformi in una catena di Sant’Antonio tecnologica, dove ogni nuovo round di investimenti serve a coprire le perdite del precedente. Se la fiducia cala, anche solo per un trimestre, l’intero castello di valutazioni potrebbe collassare con la stessa rapidità con cui è stato costruito.
L’euforia dell’IA: tra mito della crescita infinita e realtà dei conti
Le valutazioni astronomiche di Nvidia (5.000 miliardi di dollari) e Microsoft (4.000 miliardi) sono l’esempio più visibile di un mercato che si nutre di entusiasmo più che di equilibrio. Ogni nuova versione di ChatGPT o di un modello generativo scatena una corsa agli investimenti, spinta più dal timore di restare indietro che da analisi concrete sui ritorni. È il meccanismo perfetto della bolla speculativa, che si autoalimenta finché c’è domanda e fiducia, e implode quando anche solo uno dei due elementi si indebolisce.
Altman ha costruito una rete di accordi e partnership dal valore complessivo superiore ai 1.000 miliardi di dollari, un mosaico di alleanze che comprende colossi dell’hardware, startup di ricerca e fondi di investimento. Tutti convinti che l’IA sia un carburante infinito, una miniera di dati e profitto senza esaurimento. Ma dietro l’euforia si nasconde un limite strutturale: i costi energetici e infrastrutturali dei modelli linguistici sono in crescita esponenziale, e la loro sostenibilità a lungo termine è tutt’altro che garantita.
Gli analisti iniziano a parlare di una possibile “AI bubble”, un déjà vu per chi ricorda la stagione delle dot-com: allora erano i siti web a valere miliardi prima ancora di generare ricavi; oggi sono i modelli linguistici e le promesse di automazione totale a gonfiare le capitalizzazioni. E se nel 2000 bastò un cambio di fiducia per far crollare il Nasdaq, oggi basterebbe un inciampo di OpenAI per trascinare con sé l’intero mercato dell’intelligenza artificiale.
Quando l’algoritmo diventa sistema: il nuovo rischio globale
Il nodo non è più tecnologico, ma sistemico. OpenAI non è soltanto un’azienda, è una colonna portante dell’ecosistema digitale mondiale, collegata a catene di fornitura, banche, istituzioni e persino governi. I suoi modelli muovono server di Microsoft, chip di Nvidia, capitali di fondi sovrani e perfino l’orientamento politico di Paesi che scommettono sull’IA per la competitività futura. In questo intreccio, un crollo improvviso o un blocco prolungato non significherebbe solo “down” di un servizio, ma una crisi sistemica dell’intero comparto tecnologico globale.
È un paradosso dei tempi moderni: mentre milioni di imprese si affidano all’automazione per tagliare i costi e “snellire” l’organico, la loro sopravvivenza dipende da una manciata di data center e da un codice sorgente che nessuno controlla davvero. Un errore di calcolo, un blackout o un semplice bug potrebbero bloccare catene produttive, piattaforme logistiche e servizi finanziari in tutto il mondo. E così, la stessa intelligenza artificiale che prometteva efficienza e stabilità rischia di diventare il punto debole dell’economia globale.
Forse è qui la vera domanda del nostro tempo: non se l’IA fallirà, ma quanto siamo pronti a farne a meno se dovesse farlo. Perché in un mondo che affida tutto agli algoritmi, anche la più piccola crepa può trasformarsi in un terremoto.
