Mentre tutti discutono di una presunta bolla finanziaria, l’intelligenza artificiale sta già smantellando i pilastri della produttività mondiale. E la finanza comincia a temere il collasso delle industrie tradizionali
Mentre il mondo discute se l’intelligenza artificiale sia una bolla speculativa pronta a esplodere, nei piani alti della finanza il dibattito si è spostato su qualcosa di molto più concreto: la distruzione di intere industrie. A sollevare l’allarme è Jonathan Gray, presidente del colosso di private equity Blackstone, che ha lanciato un monito destinato a cambiare il modo in cui si guardano gli investimenti: “Wall Street sta sottovalutando in modo clamoroso la capacità dell’IA di rendere obsolete intere catene del valore”.
Non è solo una provocazione. Per Gray, concentrarsi sul valore di mercato delle startup di IA è un errore ottico che rischia di oscurare la vera minaccia: l’annientamento delle imprese tradizionali, dei loro modelli operativi e, di conseguenza, dei posti di lavoro che li sostengono.
Oggi, in ogni memorandum d’investimento, la voce “rischio di interruzione da IA” è diventata obbligatoria, segnalando una trasformazione sistemica che nessuno può più ignorare. La cosiddetta “distruzione profonda” non colpisce più solo i settori marginali, ma il cuore della white-collar economy, ossia le professioni intellettuali che si ritenevano immuni alla sostituzione tecnologica. Avvocati, contabili, consulenti e analisti di dati sono tra i primi a essere esposti alla tempesta algoritmica che minaccia di spazzare via milioni di impieghi qualificati.
Dal taxi all’ufficio: la parabola della disgregazione
Per spiegare cosa sta accadendo, Gray evoca un paragone tanto semplice quanto inquietante: quello dei tassisti di New York, le cui licenze hanno perso l’80% del valore dopo l’arrivo di Uber. Un intero mercato spazzato via in meno di un decennio, senza che nessuno avesse previsto la velocità del crollo.
Lo stesso, oggi, potrebbe accadere agli studi legali, ai revisori contabili, alle compagnie assicurative e a qualunque settore fondato su processi ripetitivi e regole standardizzate. L’IA, in queste aree, non si limita a migliorare l’efficienza: ne elimina la necessità stessa.
Wall Street continua a inseguire il miraggio della “bolla tecnologica”, ma evita la domanda più scomoda: “Cosa succede alle aziende legacy quando la loro conoscenza diventa un file da 300 gigabyte?”.
Dietro i grafici di crescita e le previsioni di utili, si nasconde la più grande ridefinizione del valore industriale degli ultimi decenni: la produttività cresce, ma la base economica che la sostiene si dissolve.
Il nuovo dogma di Blackstone: valutare il rischio di sparizione
Blackstone ha già riscritto i propri protocolli d’analisi. Non basta più calcolare il ROI o misurare la solidità creditizia: oggi il punto chiave è capire quando e come un’azienda può diventare irrilevante a causa di un algoritmo. Le nuove linee guida interne impongono di includere il “rischio IA” in ogni investimento, valutando due strategie parallele.
Da un lato, investire in ciò che Gray chiama le “pale e picconi dell’IA”, data center, infrastrutture cloud, reti energetiche e semiconduttori, ovvero le basi materiali della rivoluzione. Dall’altro, analizzare minuziosamente ogni azienda in portafoglio per stimare quanto tempo le resta prima di essere disgregata. È una corsa contro il tempo, e chi non aggiorna i propri modelli finisce travolto.
“Non stiamo solo assistendo a un’evoluzione tecnologica, ma a un cambio di paradigma economico globale”, sottolinea Gray. Un paradigma in cui il vantaggio competitivo non è più dato dall’esperienza o dal capitale, ma dalla capacità di adattarsi a una curva esponenziale.
Il costo umano della produttività infinita
Dietro i numeri si nasconde una verità scomoda: la produttività generata dall’IA rischia di tradursi in una compressione senza precedenti della forza lavoro intellettuale. Il World Economic Forum ha stimato che, entro il 2030, oltre 300 milioni di posti di lavoro nel mondo potrebbero essere sostituiti da sistemi automatizzati di intelligenza artificiale. Le aziende che sopravvivranno saranno quelle in grado di trasformare le proprie persone in analisti di valore aggiunto, capaci di collaborare con i modelli generativi anziché esserne sostituiti.
Ma questa transizione, per Gray, richiede “un’enorme capacità di gestione della paura”. Le imprese devono investire non solo in tecnologia, ma anche in reskilling: formare chi oggi rischia di diventare il nuovo “tassista digitale” del XXI secolo. In mancanza di una strategia, il rischio è di assistere a un’implosione del lavoro cognitivo, con conseguenze sociali difficilmente prevedibili.
Dalla finanza alla sopravvivenza industriale
Nel linguaggio asettico della finanza, si parla di “rischio di disruption”. Ma dietro l’espressione si nasconde una dinamica brutale: la fine del capitalismo lento. L’IA non aspetta, non contratta, non negozia. E quando entra in un settore, tende a monopolizzarlo. I modelli generativi che oggi scrivono testi, analizzano contratti o redigono bilanci stanno già intaccando il tessuto produttivo dei servizi avanzati. La corsa all’automazione promette efficienza, ma lascia dietro di sé intere filiere senza più scopo. Non è solo un tema tecnologico: è una questione di sopravvivenza economica.
