L’IA cambia il web: così scompaiono traffico e introiti

Crollano rapidamente i contatti verso i siti editoriali. A rischio l’economia dell’informazione

Sempre più utenti stanno abbandonando il classico motore di ricerca per rivolgersi direttamente a chatbot e strumenti di intelligenza artificiale. Il fenomeno è ormai documentato da sondaggi e dati globali, che mostrano come le nuove abitudini digitali stiano ridisegnando radicalmente il rapporto tra utenti e contenuti online. In particolare, ChatGPT, Gemini, Perplexity e altri assistenti conversazionali stanno diventando una nuova porta d’ingresso alle informazioni. Secondo recenti indagini, negli Stati Uniti ben il 62% degli utenti utilizza ogni giorno un AI chatbot, e oltre il 50% dichiara di voler ridurre l’uso dei motori di ricerca classici. Parallelamente, il 27% degli utenti USA afferma di utilizzare l’IA generativa al posto di Google, e in UK il fenomeno riguarda già il 13% della popolazione attiva sul web.

Il trend è chiaro: se una volta ogni informazione passava dai link blu di Google, oggi milioni di ricerche si esauriscono direttamente all’interno di un’interfaccia conversazionale. Questo cambiamento, se da un lato rappresenta un’evoluzione tecnologica, dall’altro sta scardinando i modelli economici del web tradizionale, basati sul traffico organico, sui referral e sulla monetizzazione tramite pubblicità. E a pagarne le conseguenze, più di tutti, sono i produttori di contenuti: gli editori.

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Pratiche per l’utente letali per i siti

A cambiare le carte in tavola non sono solo i chatbot indipendenti, ma anche Google stesso. Con l’introduzione delle cosiddette AI Overviews, le “panoramiche intelligenti” che sintetizzano una risposta completa direttamente nella pagina dei risultati, il colosso di Mountain View ha innescato un effetto domino. L’utente non ha più bisogno di cliccare su un link per ottenere una risposta: la ottiene subito. Il risultato? Una drastica riduzione dei clic verso i siti esterni.

Secondo un’analisi condotta da Similarweb per il Wall Street Journal, le AI Overviews appaiono nel 47% delle ricerche e possono occupare fino al 48% dello schermo mobile. Questo significa che un utente medio legge la risposta sintetica e raramente scorre più in basso. I clic organici calano fino al 70%, con effetti devastanti per i siti che dipendono da quel traffico per sostenere le proprie entrate. Un caso emblematico è il New York Times, che ha visto scendere la quota di traffico proveniente da Google dal 44% nel 2022 al 36,5% nell’aprile 2025.

L’IA mina il modello economico dell’informazione online

Per anni il web ha funzionato secondo un meccanismo consolidato: i contenuti venivano indicizzati, mostrati nei risultati di ricerca, e monetizzati grazie ai clic. Oggi questo sistema sta franando. L’intelligenza artificiale non solo filtra le informazioni, ma le sintetizza, le riformula e le restituisce senza dover accedere al sito originale. In altre parole, il contenuto viene utilizzato, ma il sito che lo ospita non riceve più nulla in cambio: né traffico, né revenue.

Gli editori stanno reagendo. Alcuni, come il New York Times, hanno deciso di cedere in parte alle logiche del mercato, stipulando un accordo con Amazon per la licenza dei propri articoli destinati all’addestramento dei modelli AI. Altri, come The Atlantic e The Washington Post, stanno trattando direttamente con piattaforme come OpenAI, ottenendo compensi per l’uso delle inchieste nelle risposte generate dagli assistenti conversazionali. Si apre così un nuovo scenario: quello dei modelli di revenue sharing tra editori e AI.

Chatbot e IA come punto di accesso alle informazioni

Nonostante la rapida ascesa, le piattaforme IA non hanno ancora superato Google in termini di volumi complessivi. Il motore di ricerca resta ancora il principale canale di accesso alle informazioni online, con una quota che supera l’89% del traffico mondiale. Tuttavia, la crescita esponenziale dei chatbot è sotto gli occhi di tutti. ChatGPT, da solo, ha registrato 128 milioni di visite mensili (+148% su base annua) e i chatbot generativi nel loro complesso hanno totalizzato oltre 55 miliardi di visite tra aprile 2024 e marzo 2025.

È ancora poco rispetto al colosso Google, ma sufficiente per iniziare a spostare gli equilibri. Secondo uno studio, il 77% degli utenti IA ha ridotto l’uso dei motori di ricerca. Inoltre, una fetta crescente di utenti – soprattutto giovani – inizia le ricerche direttamente da chatbot e non da Google. L’impatto sarà graduale, ma potenzialmente irreversibile.

Le alternative degli editori: nuove alleanze e monetizzazione condivisa

Nel mezzo della crisi, alcuni attori del settore stanno esplorando soluzioni innovative. La startup Perplexity, criticata lo scorso anno per l’uso non autorizzato di contenuti editoriali, ha risposto con un modello di condivisione dei ricavi pubblicitari. Quando il chatbot utilizza un articolo per rispondere a una query, l’editore riceve una percentuale degli introiti. Non è una panacea, ma può rappresentare un punto di partenza.

Altri editori stanno invece valutando modelli misti: accesso a pagamento ai contenuti, licenze dirette con le piattaforme AI, o soluzioni di identificazione automatica dei contenuti utilizzati tramite watermark digitali. Il punto critico resta l’equilibrio tra accessibilità per l’utente e sostenibilità per chi produce contenuti di qualità.

Quale futuro per il giornalismo nell’era dell’IA?

L’intelligenza artificiale sta rendendo la ricerca più rapida e conveniente per gli utenti, ma meno sostenibile per chi crea informazione. Le testate giornalistiche, già colpite da anni di crisi economica e dalla concentrazione della pubblicità online in mano a poche piattaforme, vedono ora ridursi anche quel traffico che un tempo era garantito dai motori di ricerca.

La vera sfida sarà ridefinire un nuovo equilibrio tra diritto all’informazione e remunerazione dei contenuti. Senza una regolamentazione condivisa e senza nuovi modelli economici, l’ecosistema dell’informazione rischia di svuotarsi dall’interno. Mentre le AI imparano leggendo i contenuti dei giornalisti, il giornalismo – paradossalmente – rischia di diventare la vittima più sacrificabile.

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