Pagare per fingere di lavorare: il paradosso dei disoccupati cinesi

Un boom di “uffici fittizi” dove i giovani pagano un affitto per un proprio ufficio dove fingono di lavorare: così preservano l’immagine davanti a famiglia e amici

Nella Cina contemporanea, dove la disoccupazione giovanile raggiunge livelli preoccupanti, si sta diffondendo un fenomeno tanto curioso quanto inquietante. Sempre più giovani tra i 16 e i 24 anni, privi di impiego, decidono di pagare per trascorrere le giornate in spazi che imitano alla perfezione un ufficio, pur non svolgendo alcuna attività lavorativa reale. L’idea, che potrebbe apparire surreale agli occhi occidentali, nasce in risposta a una crisi occupazionale profonda: secondo i dati ufficiali del marzo 2025, il tasso di disoccupazione giovanile in Cina è al 16,5% e non mostra segni di rallentamento. In questo scenario, l’apparenza diventa una risorsa. Gli spazi offerti da queste strutture simulano un ufficio in tutto e per tutto: scrivanie, Wi-Fi, stampanti, distributori automatici e sale riunioni. Ma dietro l’ambiente professionale si cela il vuoto. Nessuna paga, nessuna vera mansione. Eppure, l’afflusso di utenti è in costante crescita.

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Uffici fittizi a pagamento: quanto costa fingere di lavorare

Secondo quanto riportato dal quotidiano El País, accedere a questi spazi ha un costo variabile tra i 30 e i 50 yuan al giorno, ovvero tra i 4 e i 7 euro. Una cifra che, pur sembrando modesta da un punto di vista occidentale, rappresenta una spesa considerevole per chi non ha un reddito. Per fare un paragone, con 30 yuan in Cina si può consumare un pasto completo o pagare una corsa in taxi. Eppure, migliaia di giovani scelgono ogni giorno di spendere queste somme per partecipare a quella che è, a tutti gli effetti, una messinscena sociale.

Alcune strutture offrono anche pacchetti premium, con “capufficio” fittizi, compiti simbolici, simulazioni di riunioni e perfino finte discussioni tra colleghi. Per i promotori si tratta di un’esperienza utile per mantenere una routine, combattere l’ansia e preservare una forma di dignità sociale, in un contesto dove essere disoccupati è fonte di vergogna, soprattutto agli occhi dei genitori.

Routine, apparenze e stigma sociale: perché funziona

Il funzionamento psicologico di questi ambienti non va sottovalutato. In una società ancora fortemente influenzata da valori tradizionali, non avere un lavoro equivale spesso a un fallimento personale. Vivere sotto lo stesso tetto con la famiglia e non contribuire economicamente può generare forte stress e senso di colpa. Ecco quindi che fingere di lavorare diventa una strategia di sopravvivenza sociale.

Alcuni giovani preferiscono spendere una parte dei pochi risparmi, o chiedere supporto economico ai genitori, pur di non affrontare la pressione domestica e comunitaria. I coworking fittizi permettono loro di alzarsi al mattino, uscire di casa, vestirsi da impiegati e mantenere una parvenza di normalità. Un rito quotidiano che mitiga la sensazione di essere fuori posto. Chi partecipa a questa finzione lo fa con grande consapevolezza, ma anche con il desiderio di sentirsi parte attiva della società, anche se solo simbolicamente.

È teatro sociale o sfruttamento mascherato?

Il fenomeno divide l’opinione pubblica cinese. Da un lato, ci sono psicologi e analisti che vedono in queste strutture un valido supporto per ridurre l’ansia e restituire ai giovani una routine e un ruolo. Dall’altro, però, cresce la preoccupazione che queste attività stiano alimentando un circolo vizioso. Invece di affrontare il problema alla radice, ovvero la mancanza strutturale di lavoro, si preferisce vendere illusioni a pagamento.

Alcuni osservatori definiscono il fenomeno come un inganno psicologico che, dietro il paravento della “salute mentale”, sfrutta economicamente la vulnerabilità dei giovani. In pratica, chi non ha un lavoro finisce per pagare chi gli offre la possibilità di far finta di averlo. Un paradosso che, in altri contesti, potrebbe essere bollato come assurdo, ma che in Cina si inserisce in un tessuto culturale molto più complesso, dove il concetto di dignità personale è strettamente legato al ruolo sociale visibile agli altri.

Un lusso psicologico che costa caro

Fare due conti è illuminante. Frequentare questi uffici finti per 22 giorni al mese, a un costo medio di 40 yuan al giorno, significa spendere 880 yuan al mese: una cifra non lontana da quello che sarebbe uno stipendio base da stagista in una piccola azienda. In molte città della Cina, chi ha appena terminato gli studi può contare su uno stipendio di circa 4.000 yuan. Per chi invece non lavora, e magari vive ancora coi genitori, questa spesa può diventare una voce pesante nel bilancio familiare.

Eppure, molti sono disposti ad affrontarla. A volte, è più facile pagare per far finta di essere inseriti, che affrontare la realtà della disoccupazione. I finti uffici, con le loro simulazioni, diventano una forma di terapia collettiva, ma anche una spia del malessere profondo di una generazione bloccata tra aspettative sociali e carenza di opportunità.

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