Indice
- 1 Il purificatore d’aria indossabile voluto da Jake Dyson è stato un fallimento: design discutibile, prezzo eccessivo e timing sbagliato
- 2 Il prezzo e il design hanno affossato Zone
- 3 Il peso della transizione generazionale
- 4 Quanto è costato il fallimento di Zone?
- 5 Recensioni impietose e nessuna redenzione
- 6 Una lezione amara, ma forse necessaria
Il purificatore d’aria indossabile voluto da Jake Dyson è stato un fallimento: design discutibile, prezzo eccessivo e timing sbagliato
Il Dyson Zone, presentato come rivoluzione tecnologica nel campo della purificazione personale, è stato ritirato dal mercato. Il dispositivo, un ibrido tra cuffie over-ear e mascherina ad aria filtrata, è stato sviluppato dalla nota azienda britannica specializzata in elettrodomestici. Si trattava del primo prodotto voluto da Jake Dyson, figlio del fondatore James, dopo l’integrazione della linea Jake Dyson Products nel portafoglio aziendale. Ma il mercato ha bocciato il progetto. L’idea di indossare un purificatore collegato a due grossi padiglioni auricolari è sembrata più una trovata futuristica mal riuscita che una risposta concreta alle esigenze post-pandemiche. Il design, definito da molti “inquietante”, ha penalizzato l’accoglienza del pubblico, nonostante il dispositivo fosse pensato per migliorare la qualità dell’aria respirata in ambienti urbani. Lanciato troppo tardi rispetto alla pandemia da Covid, quando la domanda di dispositivi simili era già scemata, ha mancato l’unico treno utile: quello dell’emergenza.
Il prezzo e il design hanno affossato Zone
Il Dyson Zone, venduto a 949,99 dollari, puntava a un pubblico attento all’inquinamento e disposto a spendere per la propria salute. Ma a parte qualche curioso tecnologico, le vendite sono state tiepide.
Secondo Jake Dyson, l’errore sarebbe anche di comunicazione visiva:
“Alla gente importa molto dell’aspetto che si ha indossando questi dispositivi”.
E in effetti, chi lo indossava sembrava uscito da un videogame, più vicino ai combattenti di Mortal Kombat che a un utente urbano. Il fallimento commerciale ha lasciato l’azienda con scorte in eccesso, vendute in saldo a meno di 260 dollari.
Il figlio del fondatore ha continuato a difendere la scelta:
“Ne abbiamo vendute migliaia. È un prodotto brillante. Crediamo che la sua occasione si ripresenterà in futuro”.
Ma il mercato ha espresso un verdetto chiaro.
Il peso della transizione generazionale
Il Dyson Zone ha rappresentato più di un semplice prodotto. È stato il battesimo imprenditoriale di Jake Dyson come ingegnere capo e figura di riferimento per il futuro dell’azienda. Ma il suo lancio sfortunato alimenta ora i dubbi sulla sua guida. La società, che conta 14.000 dipendenti in 80 Paesi, ha già vissuto nel 2024 un’ondata di licenziamenti, con un quarto del personale tagliato solo nel Regno Unito.
Il fallimento del Dyson Zone potrebbe non essere solo un inciampo, ma il sintomo di una strategia sbagliata.
Il fondatore James ha spesso sottolineato l’importanza dell’errore nel progresso tecnologico, ma con un approccio più cauto e umile. Jake invece appare convinto che il Dyson Zone possa avere ancora una seconda vita, magari sfruttando il ritorno della sensibilità ambientale o una nuova emergenza sanitaria.
Quanto è costato il fallimento di Zone?
L’azienda non ha comunicato le cifre ufficiali, ma secondo gli analisti i costi sono stati ingenti. Un senior analyst di Counterpoint ha ipotizzato:
“Zone è frutto di sei anni di modellazione e test. Anche solo con un team di 10 persone, parliamo di milioni. L’acustica, i prototipi e la messa a punto del suono richiedono investimenti enormi”.
Alla fine, il bilancio è pesante: nessun ritorno economico, nessun margine, zero visibilità positiva. Il Dyson Zone, più che un dispositivo innovativo, è diventato un simbolo di come anche le grandi aziende possano fallire, soprattutto quando il prodotto non incontra i bisogni reali del pubblico.
Recensioni impietose e nessuna redenzione
Le recensioni hanno contribuito ad affossare ulteriormente l’immagine del prodotto. Il direttore della rivista Hi-Fi+, Alan Sircom, lo ha liquidato così:
“La Zone è troppo strana. Ricorda le mascherine del Covid: un disastro”.
Anche Wired USA non è stata più tenera. In una delle sue prime recensioni, il giornalista descriveva la sensazione di indossarlo come quella di essere “un cattivo di Batman alla Fisher-Price”.
Il prodotto, pensato per innovare, è diventato oggetto di ironie e meme. Il pubblico ha risposto con l’indifferenza, il mercato con la svalutazione e l’azienda con un’ammissione implicita di sconfitta: il ritiro dagli scaffali.
Una lezione amara, ma forse necessaria
Il Dyson Zone è rimasto in commercio appena due anni. Il suo ritiro segna la fine di un capitolo, ma forse l’inizio di una riflessione più profonda per l’azienda. La sfida ora è capire se Dyson saprà reinventarsi davvero, puntando su innovazioni che rispondano a bisogni concreti, anziché inseguire visioni futuristiche difficili da digerire. Per Jake Dyson si tratta di un test importante. Non solo come ingegnere, ma come erede della visione paterna.