Creati i primi denti bionici che dialogano con il cervello

Sentono la pressione come i denti naturali. Impianti stabili e senza rigetto

Ogni anno, milioni di persone si sottopongono a interventi per ricevere impianti dentali, una soluzione estetica e funzionale per la perdita dei denti. Tuttavia, nonostante l’aspetto naturale, gli impianti convenzionali non riproducono la sensibilità dei denti veri. A colmare questa lacuna potrebbe essere una nuova generazione di dispositivi, sviluppata dagli scienziati della Tufts University School of Dental Medicine in collaborazione con la School of Medicine. Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, documenta i promettenti risultati di un prototipo di impianto intelligente testato nei ratti, capace non solo di integrarsi meglio con i tessuti ma anche di restituire la percezione del tatto, simile a quella dei denti naturali. L’innovazione non riguarda solo il dispositivo ma anche la tecnica chirurgica, più delicata e meno invasiva, che consente di preservare i nervi presenti nel sito d’impianto.

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Come funziona l’impianto: rigenerazione nervosa e memoria tattile

A differenza degli impianti tradizionali, che prevedono un perno in titanio fuso direttamente con l’osso mascellare, il nuovo dispositivo è avvolto in un rivestimento biodegradabile. Questo strato contiene cellule staminali e una proteina speciale in grado di stimolarne la trasformazione in tessuto nervoso. Durante la guarigione, il rivestimento si dissolve e rilascia gradualmente questi elementi, favorendo la formazione di nuove terminazioni nervose attorno all’impianto.

Inoltre, il rivestimento contiene nanoparticelle elastiche simili a un “memory foam”, che inizialmente comprimono l’impianto rendendolo più piccolo del dente mancante. Una volta inserito, l’impianto si espande delicatamente fino a riempire completamente la cavità, permettendo un posizionamento preciso che rispetta i tessuti nervosi preesistenti.

Un dente che dialoga con il cervello

Secondo Jake Jinkun Chen, autore senior dello studio e direttore della Division of Oral Biology alla Tufts, “i denti naturali sono collegati all’osso attraverso tessuti molli ricchi di terminazioni nervose, fondamentali per percepire pressione, consistenza e controllare masticazione e linguaggio”. Gli impianti attuali, invece, “sono strutture inerti che non offrono alcun feedback sensoriale”. Il nuovo approccio mira a superare questa limitazione, riconnettendo l’impianto al sistema nervoso, come se fosse un dente vero. Per Chen, questo risultato rappresenta una svolta che potrebbe influenzare anche altri tipi di impianti ossei, come quelli utilizzati nelle protesi d’anca o nella riparazione delle fratture.

I primi risultati sui ratti: impianti stabili e senza rigetto

Dopo sei settimane dall’intervento, gli impianti nei roditori sono risultati stabili, privi di infiammazione o rigetto. Le immagini raccolte mostrano uno spazio ben definito tra impianto e osso, segno che l’integrazione è avvenuta attraverso tessuto molle e non per fusione diretta con l’osso. Questo elemento è rilevante perché suggerisce la presenza di un’interfaccia nervosa, simile a quella dei denti naturali. La ricerca, condotta da Chen insieme a Qisheng Tu e Zoe Zhu della Tufts School of Dental Medicine e ai ricercatori post-doc Siddhartha Das (primo autore) e Subhashis Ghosh della Tufts School of Medicine, si propone ora di verificare l’attività cerebrale per dimostrare che le nuove terminazioni nervose trasmettono davvero informazioni sensoriali.

Verso i test sugli esseri umani

I dati preliminari ottenuti sono molto promettenti, ma per passare alla sperimentazione sull’uomo serviranno ulteriori studi preclinici. Gli autori puntano a testare il prototipo su modelli animali più grandi, in modo da valutare sicurezza, efficacia e funzionalità sensoriale. Solo in seguito si potrà avviare una sperimentazione clinica. Il prossimo obiettivo sarà verificare, attraverso tecniche di imaging cerebrale, se le terminazioni nervose indotte intorno all’impianto siano in grado di attivare le aree sensoriali del cervello. In tal caso, si aprirebbe la strada a una nuova generazione di protesi capaci non solo di funzionare ma anche di sentire.

Fonte:
Scientific Reports

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