Cibo ultra-processato, l’allarme degli scienziati: salute a rischio

Quando patatine, bibite e snack diventano pericolosi quanto il tabacco

Sono ovunque: nei bar, nei fast food, nelle corsie dei supermercati e persino nelle dispense di chi crede di mangiare “abbastanza sano”. Merendine, snack, bevande zuccherate, affettati confezionati: dietro nomi familiari e colori accesi si nasconde la categoria di alimenti più discussa del nostro tempo, i cibi ultraprocessati. Parliamo di prodotti industriali composti da un mix di ingredienti artificiali, zuccheri raffinati, oli, additivi e conservanti studiati per durare a lungo e piacere a tutti. Ma c’è un problema: queste sostanze non appartengono alla storia evolutiva del nostro corpo. Sono “nuove” per la biologia umana, introdotte in massa solo da pochi decenni.

Un nuovo studio della Florida Atlantic University (FAU) lancia un paragone inquietante: i cibi ultraprocessati potrebbero essere per la nostra salute ciò che il tabacco è stato per i nostri polmoni. Non si tratta di un’esagerazione giornalistica. Gli scienziati hanno scoperto che chi consuma troppi alimenti di questo tipo mostra livelli più alti di proteina C-reattiva ad alta sensibilità, un biomarcatore di infiammazione sistemica associata a malattie croniche e degenerative. In pratica, ogni pacchetto di snack contribuisce a un’infiammazione di fondo che, col tempo, logora l’organismo come una brace che non si spegne mai. E proprio come con il fumo, gli effetti veri potrebbero vedersi solo tra decenni, quando il danno sarà ormai radicato.

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Lo studio americano che fa discutere

I ricercatori della FAU hanno analizzato i dati di 9.254 adulti statunitensi, raccolti dal National Health and Nutrition Examination Survey. Nel campione, i partecipanti assumevano in media il 35% delle calorie giornaliere da alimenti ultraprocessati. Ma c’erano differenze enormi: alcuni si fermavano sotto il 20%, altri superavano il 70%.

Quando i ricercatori hanno confrontato i valori della proteina C-reattiva, il risultato è stato netto: chi superava il 40% di calorie provenienti da cibi ultraprocessati aveva un rischio maggiore dell’11-14% di presentare livelli infiammatori elevati. Un valore tutt’altro che trascurabile, soprattutto considerando che l’infiammazione cronica di basso grado è ormai riconosciuta come fattore chiave nello sviluppo di malattie cardiovascolari, obesità, diabete e tumori.

Il dato più preoccupante? Negli Stati Uniti, il 60% delle calorie medie giornaliere degli adulti arriva proprio da questi alimenti. Ecco perché, secondo gli autori, il problema non riguarda solo la bilancia, ma la salute pubblica nel suo complesso.

Infiammazione cronica: il nemico che non si vede

Molti pensano all’infiammazione come a qualcosa di acuto, come una febbre o una ferita. In realtà, la vera minaccia è quella silenziosa e continua, chiamata infiammazione cronica di basso grado. È un fuoco invisibile che brucia lentamente, spesso senza sintomi, ma che nel tempo favorisce l’invecchiamento precoce, la degenerazione neuronale e l’accumulo di placca arteriosa.

La proteina C-reattiva è il campanello d’allarme che il corpo suona quando questo fuoco non si spegne. I livelli elevati di questa proteina nel sangue, secondo la FAU, sono fortemente collegati all’abuso di alimenti industriali. Non serve essere obesi per essere infiammati, spiegano i ricercatori. Basta un consumo costante di snack confezionati, piatti pronti o bibite per alterare l’equilibrio interno dell’organismo.

E il rischio cresce con l’età, il fumo e la sedentarietà. Gli over 50 che abusano di questi prodotti mostrano valori infiammatori quasi doppi rispetto ai giovani adulti. Una combinazione esplosiva per il cuore e per il cervello.

“Come con il tabacco, servono decenni per capire”

A commentare i risultati è Charles H. Hennekens, co-autore dello studio e docente di medicina preventiva: «Le multinazionali che producono alimenti ultra-elaborati sono molto influenti, proprio come lo erano le aziende del tabacco in passato. Serviranno anni, forse decenni, per vedere cambiamenti concreti nelle politiche alimentari».

Un paragone pesante, ma non campato in aria. Anche con il tabacco, i primi allarmi furono ignorati per decenni, finché la montagna di prove scientifiche costrinse governi e industrie a intervenire. Oggi, lo stesso copione sembra ripetersi col cibo: spot colorati, marketing infantile, etichette fuorvianti, tutto studiato per normalizzare un consumo costante di alimenti che non nutrono davvero.

Una ricerca parallela dell’Università di Roma Tor Vergata ha confermato che la dieta mediterranea biologica è in grado di “spegnere” i geni dell’infiammazione, sottolineando che la differenza non è solo culturale o gastronomica, ma biologica. In altre parole, il corpo riconosce e accoglie meglio ciò che è naturale, e reagisce come a un’invasione chimica quando incontra ciò che è ultraprocessato.

L’industria alimentare e il rischio “deja vu” del tabacco

Il problema non è solo nutrizionale ma politico. Le aziende del settore alimentare muovono miliardi e dispongono di lobby potenti, capaci di condizionare campagne, regolamenti e perfino linee guida sanitarie. Come accadde con le sigarette, anche qui i ricercatori temono una lunga resistenza al cambiamento: la scienza corre, ma il profitto corre più veloce.

Molti paesi, tra cui l’Italia, hanno iniziato a introdurre etichette “Nutri-Score” o “a semaforo”, ma la battaglia culturale è solo all’inizio. Il rischio è che, mentre i dati si accumulano, la popolazione resti esposta per anni a una dieta tossica legalizzata, spacciata per conveniente e moderna.

Chi rischia di più e perché

L’analisi statistica mette in luce che non tutti i consumatori sono uguali: ci sono fattori che amplificano il rischio legato ai cibi ultra-processati.

  • Età: adulti tra i 50 e i 59 anni mostrano un rischio di infiammazione superiore del 26% rispetto ai giovani (18-29 anni).
  • Obesità: chi è obeso ha un rischio aumentato fino all’80% rispetto a chi ha peso regolare.
  • Fumo: fumatori attivi mostrano un aumento del rischio del 17% rispetto a non-fumatori.

Cosa possiamo fare davvero

Eliminare del tutti gli alimenti ultraprocessati è quasi impossibile, ma ridurli è fattibile e salva-salute. Serve imparare a leggere le etichette: se trovi un elenco di ingredienti che somiglia a una formula chimica, lascia perdere. Meglio preferire cibi semplici, freschi e riconoscibili.

Prima, riconoscere gli alimenti: se in una confezione trovi più ingredienti di quante ne conterebbe una torta fatta in casa, se il contenuto di zuccheri, grassi o additivi è elevato, probabilmente sei di fronte a un ultra-processato.

Secondo, aumentare il consumo di cibi minimamente processati: frutta, verdura, legumi, pesce, carni semplici.

Terzo, leggere la dieta in ottica di qualità e non solo di calorie: la nutrizione conta tanto quanto il bilancio energetico.

Infine, la politica alimentare e educativa: come per il tabacco, serve tempo ma anche volontà pubblica affinché alimenti più sani diventino accessibili, trasparenti e preferiti. Le raccomandazioni degli autori sono chiare: medici, nutrizionisti e decisori politici devono parlare dei rischi dei cibi ultra-processati e promuovere l’alternativa “cibo vero”.

Fonte:
Ultra-processed foods and increased high sensitivity C-reactive protein – PubMed

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