Indice
- 1 Tagliano i costi sostituendo l’uomo con le macchine, ma ignorano il paradosso: senza stipendi, nessuno potrà più comprare ciò che producono
- 2 L’illusione della crescita infinita
- 3 Blue Jay e il volto umano del robot
- 4 Project Eluna e la fabbrica invisibile
- 5 Chi comprerà in futuro?
- 6 Una sfida per governi e cittadini
Tagliano i costi sostituendo l’uomo con le macchine, ma ignorano il paradosso: senza stipendi, nessuno potrà più comprare ciò che producono
C’è qualcosa di profondamente ironico nella corsa globale verso l’automazione. Le aziende annunciano con entusiasmo nuovi robot e sistemi di intelligenza artificiale che “aiutano” i dipendenti, ma la realtà è diversa: sempre più persone vengono mandate a casa. Amazon, Google, IBM e una lunga lista di multinazionali stanno progressivamente sostituendo gli esseri umani con algoritmi, macchine e software capaci di lavorare senza ferie, senza malattie e, soprattutto, senza stipendio. È l’illusione perfetta del progresso: si tagliano i costi, si aumenta l’efficienza, ma si cancella la base stessa del consumo. Perché se milioni di lavoratori perdono il reddito, chi comprerà i prodotti di queste stesse aziende?
Blue Jay, l’ultimo robot di Amazon, ne è l’emblema. Il colosso di Seattle lo presenta come “un paio di mani in più”, non un sostituto umano. Ma basta leggere tra le righe per capire la direzione: macchine in grado di gestire il 75% delle attività nei magazzini, di coordinarsi tra loro e di ridurre la presenza umana al minimo. Un sogno per gli azionisti, un incubo per i lavoratori.
L’illusione della crescita infinita
Amazon difende le sue scelte ricordando di essere “l’azienda che ha creato più posti di lavoro negli Stati Uniti nell’ultimo decennio”. Ma anche il suo CEO Andy Jassy ammette, nella lettera agli azionisti, che “l’AI e l’automazione renderanno necessarie meno persone per certi ruoli e più persone per altri”. Una frase elegante per dire che intere mansioni spariranno.
La logica è spietata: tagliare i costi a ogni costo. Ma l’economia globale si regge su un equilibrio delicato: se chi lavora non guadagna, non consuma, e se non consuma, le aziende non vendono. È un cortocircuito che rischia di implodere. L’automazione promette margini più alti oggi, ma un mercato più povero domani. Gli esperti di economia lo chiamano effetto boomerang del capitale tecnologico: il profitto cresce mentre il potere d’acquisto collettivo crolla.
Blue Jay e il volto umano del robot
Nel comunicato ufficiale, Tye Brady, chief technologist di Amazon Robotics, prova a cambiare tono: “Il vero titolo non riguarda i robot, ma le persone e il futuro del lavoro che stiamo costruendo insieme”. Parole rassicuranti, ma poco convincenti. Nei magazzini automatizzati, gli umani si limitano sempre più a sorvegliare, riparare, programmare. Il lavoro fisico è quasi sparito, sostituito da bracci meccanici che impilano, selezionano, trasportano pacchi senza sosta.
Blue Jay non è solo un esperimento: è un simbolo del modello industriale verso cui stiamo andando. Un mondo dove ogni addetto sarà affiancato, o sostituito, da un sistema d’intelligenza artificiale. E dove la “collaborazione uomo-macchina” rischia di tradursi in una semplice riduzione della componente umana.
Project Eluna e la fabbrica invisibile
A fianco di Blue Jay nasce Project Eluna, un agente AI che lavora dietro le quinte analizzando flussi e carichi di lavoro. Distribuisce le attività, ottimizza i tempi, elimina sprechi. Tutto perfetto, se non fosse che ogni miglioramento di efficienza comporta un taglio di personale.
L’azienda lo chiama smart optimization, ma i sindacati lo definiscono “ottimizzazione della disoccupazione”. Il risultato è una fabbrica invisibile, dove le decisioni operative vengono prese da un algoritmo e il personale umano resta confinato ai margini. Intanto, i profitti salgono. Ma salgono anche i livelli di precarietà, e con essi il rischio di una nuova polarizzazione economica: poche aziende ultra-ricche e una massa crescente di consumatori impoveriti.
Chi comprerà in futuro?
La domanda non è più tecnologica, ma sociale. Se tutte le aziende scelgono la via della riduzione dei costi umani, chi potrà permettersi di comprare i loro prodotti? I robot non fanno la spesa, non prenotano viaggi, non comprano abbonamenti Prime. Il ciclo economico si spezza nel punto più critico: il reddito. Economisti come Robert Reich e Yuval Noah Harari avvertono che il vero rischio non è la disoccupazione temporanea, ma la fine strutturale del lavoro come strumento di reddito. Senza un sistema di redistribuzione efficace, il capitalismo automatizzato si trasformerà in un’economia chiusa: poche aziende iper-efficienti, ma senza clienti.
Una sfida per governi e cittadini
I governi sembrano arrancare. Si parla di tassare i robot, di creare un reddito universale di base, ma le misure sono ancora sperimentali e frammentarie. Nel frattempo, le aziende più grandi corrono avanti, spinte dalla promessa di risparmi immediati. Eppure, il futuro potrebbe ancora essere diverso. L’automazione non deve per forza distruggere il lavoro: potrebbe liberarlo da mansioni usuranti, ridurre gli orari e redistribuire la ricchezza prodotta. Ma questo richiede una visione politica, globale, che oggi manca. Perché l’AI non ha un’etica: segue solo il profitto.
