Il test di Greenpeace Italia mette sotto accusa i brand insospettabili
Quando versiamo acqua minerale nel bicchiere pensiamo di bere purezza. E invece Greenpeace Italia ha scoperto che in realtà potremmo ingerire sostanze chimiche perenni. Dopo un’analisi su 16 bottiglie dei marchi più diffusi (Ferrarelle, Levissima, Panna, Rocchetta, San Benedetto, San Pellegrino, Sant’Anna, Uliveto), l’organizzazione ha dichiarato di aver trovato tracce dell’acido trifluoroacetico (Tfa) – un Pfas – in sei marche su otto, sia nei laboratori tedeschi sia in quelli italiani. Solo Ferrarelle e San Benedetto sono risultate “pulite”, ossia con concentrazioni inferiori al limite di rilevabilità (50 ng/L).
Il campione più contaminato, affermano dall’associazione ambientalista, è stato Panna, con 700 ng/L, seguito da Levissima con 570 e Sant’Anna con 440. Greenpeace ha inviato questi risultati ai produttori coinvolti: «Nessuna delle realtà contattate ha voluto commentare», si legge nel report “Pfas in bottiglia”. E quel silenzio pesa. Ora sappiamo che non è solo la plastica ad essere un problema. Il Tfa era l’unico Pfas rilevato, non sono emersi né i 20 Pfas regolamentati dalla direttiva Ue sull’acqua potabile né i Pfas-4 (Pfoa, Pfos, PfHxS, Pfna).
Che differenza fa? Che il Tfa, pur essendo meno noto, è classificato in Germania come “tossico per la riproduzione”, “molto mobile” e “persistente”. Fa parte del gruppo di composti che derivano dalla degradazione ambientale di altri Pfas già vietati o limitati. Si accumula in organismi animali e vegetali, eppure in Italia non esiste un divieto serio. Il governo Meloni ha approvato un decreto che abbassa i limiti consentiti in acqua, ma non ha imposto bandi o restrizioni. E nella mozione parlamentare 1-00419 non compare alcuna menzione del Tfa.
Analogie europee e silenzi italiani
Non siamo soli in questa emergenza. In altri Paesi europei si muovono con misure coraggiose. La Danimarca ha bandito vari prodotti contenenti Pfas e stanziato 54 milioni di euro per un piano nazionale dedicato. La Francia, dal 2026, proibisce tessuti e cosmetici contenenti tracce di Pfas. Intanto, l’European Environmental Bureau (Eeb) ha scoperto Pfas nel sangue di 24 leader europei di 19 Stati Ue.
In Italia, invece, nonostante le evidenze raccolte da Greenpeace e altri studi, regna il vuoto normativo. Il decreto del governo riduce i limiti nelle acque, ma non vieta l’uso dei composti. Se l’ECHA (Agenzia europea delle sostanze chimiche) classificherà il Tfa come agente tossico per la riproduzione, potrebbe essere “metabolita rilevante” nei fitosanitari, con effetto sulle regole per l’acqua potabile. Greenpeace osserva che, in Germania, questo porterebbe a limiti massimi di 100 ng/L di Tfa nell’acqua potabile secondo la TrinkwV (ordinanza tedesca).
Numeri che fanno tremare l’etichetta
I valori rilevati da Greenpeace – tra circa 70 e 700 ng/L – sono inferiori solo in parte rispetto ad altri test europei, dove si trovano concentrazioni fino a 3.300 ng/L. Significa che l’Italia non è “più sicura”, ma spesso semplicemente meno analizzata. Greenpeace sottolinea: «non si tratta di un problema isolato del nostro Paese».
Il Tfa è stato l’unico Pfas individuato in queste analisi. I campioni esaminati non contenevano né i 20 Pfas citati nelle direttive né i Pfas-4 considerati più pericolosi. Questo fatto può sembrare rassicurante, ma non lo è: recentemente gli studi sul Tfa si sono intensificati proprio per la sua crescente rilevanza ambientale e sanitaria.
Lacune italiane con conseguenze reali
In Italia si attendono le norme europee, ma non si rispettano nemmeno quelle già in fase di definizione. La direttiva Ue 2020/2184 sull’acqua potabile entrerà in vigore nel 2026, imponendo limiti più rigidi. Tuttavia, le evidenze scientifiche attuali – specie per il Tfa – suggeriscono che tali limiti potrebbero essere troppo larghi per una protezione reale della salute.
Il governo Meloni ha discusso una mozione parlamentare sui Pfas (1-00419), ma non ha incluso il Tfa. Nel frattempo, la Germania ha chiesto all’ECHA di classificare il Tfa come rischio riproduttivo: se approvato, questo potrebbe imporre restrizioni su pesticidi e acqua potabile in tutta Europa. Greenpeace evidenzia che alcune acque italiane già superano i limiti più restrittivi (quelli danesi, ad esempio). Il risultato? Milioni di cittadini che bevono acqua “normale” potenzialmente contaminata.
Cosa rischiamo (e cosa chiedere)
Il Tfa è persistente, mobile, si diffonde nell’ambiente e può entrare nel corpo. Pur non essendo (ancora) uno dei Pfas più studiati, è associato a rischi riproduttivi in studi animali. Le conseguenze potenziali comprendono alterazioni ormonali, danni al fegato, alterazioni al sistema immunitario, e pericoli in gravidanza. Greenpeace chiede che l’Italia adotti misure drastiche: divieto totale dell’uso dei Pfas, classificazione ufficiale del Tfa come rischio per la salute, limiti più severi sull’acqua potabile, trasparenza e obbligo di risposta da parte dei produttori.
Link utili:
I PFAS sono anche nell’acqua in bottiglia: li abbiamo trovati in 6 marche su 8 – Greenpeace Italia
